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MIseria del lavoro p.2 di Daniele Martinuzzi


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Vi è un’interpretazione del XII canto dell’Odissea che svela nel mito il rapporto reciproco di lavoro e dominio. Il racconto narra del passaggio di fronte alle Sirene. La tentazione rappresentata dal loro canto è invincibile, la sua bellezza non è ridotta a mera arte, il passato vi torna come vivente e dissolve l’ordine del tempo tripartito, cosicché il futuro non manca mai la sua promessa. Nessuno può resistervi, l’identità individuale, di cui la nave d’Odisseo batte la rotta, si è appena formata con indicibile pena, è divenuta adulta nella assoluta lacerazione, e non può che rimpiangere l’infranto. Essa si strugge per una promessa di felicità, di cui il Sé trattiene l’immagine senza poterla adempiere. Sospeso tra autoconservazione e autoannientamento, plasma la memoria di un tempo prima del tempo, che non arriva mai a vivere, e ad ogni infanzia è imposto questo tributo di dolore.

Il bambino conosce un tempo dal corso diverso, in cui ogni strada è aperta di fronte a lui, egli ha ancora il potere di riconoscere il nuovo. Ma il mondo è alle porte e il suo carattere è il presente inesorabile. Chiuso nel cerchio delle ore egli deve divenire pratico, deve accettare d’invecchiare, così come più tardi, da lavoratore obbediente, inaugurerà col sacrificio ogni giorno della propria vita di sciagura.
Ma la tentazione del canto è irresistibile, Odisseo non conosce che una strada per conservarsi, insieme contraria alla propria morte e alla propria felicità. Egli tappa le orecchie dei compagni con la cera e gli ordina di remare con tutta la loro forza. Come fanno le schiere dei lavoratori costretti a tirare avanti l’ordine di un mondo in cui per durare non devono poter dare ascolto all’irrevocabile. Con i propri sensi mutilati, senza poter udire, con gli occhi accecati dal sudore, senza controllare la loro corsa, devono sublimare la propria frustrazione in ulteriore disperato sforzo.
Odisseo, il signore, colui per il quale gli altri lavorano, si è fatto legare stretto all’albero e ode impotente il canto. Ora conosce la verità sulla sua bellezza, e grida ai compagni di liberarlo, ma è troppo tardi, questi non odono nulla, sanno solo del pericolo che li minaccia e lo trascinano con loro stretto all’albero, per salvarlo e per salvarsi con lui. Così il servo riproduce con sé la violenza dell’oppressore, l’oppressore la dipendenza del servo che ha posto tra sé e la cosa.
Lavoro comandato e cultura, servitù e signoria, si sostengono reciprocamente nell’obbligo del dominio sociale sulla natura. Ma la separazione è impotente e la prassi formalizzata comporta, con l’affermazione della potenza delle forze produttive, il ritorno di stadi antropologicamente più primitivi. Così la natura, che è la sola autoconservazione, viene scatenata dal processo che si era votato a scacciarla. E già all’origine, la divisione del lavoro condanna il mondo, con l’incessante progresso all’incessante regressione.

Nella prima sezione del Capitale dedicata da Marx all’analisi della merce viene introdotto il concetto di valore d’uso, secondo il rapporto di quantità e di qualità, come determinazione del corpo stesso di una merce. E’ il corpo stesso di una merce, di una tonnellata di ferro come quella di un “arazzo filato” che costituisce valore; c’è un bene materiale attinente immediatamente al suo uso, qualunque sia la sua forma sociale. Ma nella forma della società in cui domina l’attuale sistema di produzione, il corpo stesso di una merce è depositario materiale di un altro valore, quello di scambio. Come semplice rapporto quantitativo, un quanto di una qualsiasi merce per un quanto di una qualsiasi altra, il valore di scambio si mostra come misura ancella del valore d’uso, un rapporto mediante il quale si scambiano valori d’uso di tipo diverso quanto a luoghi, tempi e modi della produzione. Ma così, surrettiziamente, il valore di scambio diviene propriamente valore solo come contraddizione in processo, “contraddizione nell’attributo” del corpo stesso della merce, del cui valore d’uso, necessariamente, non conserva più nulla.

Angelo Bronzino, La lussuria smascherata

“Prendiamo ancora due merci, per esempio grano e ferro. Qualunque sia il loro rapporto di scambio, lo può sempre raffigurare in una equazione, nella quale una data quantità di grano è uguale ad una data quantità di ferro, per esempio un quarter di grano uguale un quintale di ferro. Cosa significa questa equazione? Che in due diverse cose, in un quarter di grano come anche in un quintale di ferro, esiste un qualcosa di comune e della stessa grandezza. Quindi ambedue sono uguali ad una terza cosa, che in se stessa non è né l’uno né l’altro. Ciascuno di essi, come valore di scambio, deve perciò essere riducibile a questo terzo.”1

Come in ogni gioco di specchi, quando questi si guardano l’uno nell’altro, “Satana opera il suo trucco preferito” spalancando a suo modo la prospettiva sull’infinito.

L’essenziale, a partire dalla fenomenologia hegeliana, sta quindi nel fatto che il principio generatore della dialettica pone l’autogenerazione dell’uomo come un processo, e che, conseguentemente, concepisce l’oggettivazione come una contrapposizione, come alienazione e soppressione di questa alienazione. In questo senso esso intende “l’essenza del lavoro e concepisce l’uomo oggettivo, l’uomo vero perché reale, come il risultato del suo proprio lavoro”.3 Ma nel divenire per sé dell’uomo mediante l’intera sua opera collettiva, cioè come divenire della storia, che è il risultato di questo lavoro nell’ambito delle sue forze dispiegate realmente, egli si riferisce a queste forze come a oggetti: innanzitutto di nuovo nella estraniazione. La critica di Marx è pertinente al rapporto reciproco che in Hegel assumono fenomenologia e dialettica speculativa. Nell’essenza del lavoro, nel lavoro concepito positivamente, si cela il suo lato negativo: il divenire per-sé dell’uomo nell’ambito dell’alienazione o come uomo alienato.

Ma qual è la sostanza del valore di scambio, che abbiamo visto diviene solo a prescindere dal corpo stesso delle merci, di un valore che in quanto determinazione della cosa la nega, che prescindendo dalla cosa riduce il suo stesso corpo a spoglia. Cos’è ciò che resta loro, più propriamente quale la qualità del loro contenuto, “quella di essere prodotti del lavoro”

Ma il prodotto del lavoro, tralasciato il suo valore d’uso, tralasciate le forme concrete dei bisogni reali che l’hanno prodotto, subisce una metamorfosi. Diviene valore indipendentemente dalle proprie qualità sensibili, che rispetto a questo solo accidentalmente si presentano ormai nel corpo delle cose, non sono più quindi sostenibili neanche le forme materiali che producono tali cose, nessuna qualità d’ogni singolo lavoro che non possa essere ricondotta alla stessa misura suscettibile dello scambio, a “lavoro umano astratto”. Nuovamente non la cosa, ma la sua “immagine”, la rappresentazione di un rapporto sociale. Solo a posteriori in questo processo la cosa e il dispendio di forza umana in essa contenuta, ridiviene bene, valore socialmente utile, e solo in quanto in essa si è oggettivato “lavoro umano astratto”. La riconduzione di ogni attività umana al sorgere sempre uguale di uno stesso giorno, in cui tutto è sempre solo per-altro, movimento astratto del valore che si realizza incessantemente solo se ricondotto a sé nella pura identità quantitativa.
Nella “equazione di valore” compare tutto il “rimosso” della società, ciò che può essere dedotto solo negativamente e che pure separatamente determina il reale.

Partiamo da un punto.

” Il corpo della merce che funge da equivalente vale sempre da incarnazione di lavoro astrattamente umano ed è sempre il prodotto di un determinato lavoro utile, concreto. Il lavoro concreto diventa quindi l’espressione di lavoro astrattamente umano.”5 In questo è racchiusa tutta la misére della società produttrice di merci, e consiste nel fatto che per essa il “lavoro in forma immediatamente sociale” è sempre e soltanto lavoro astratto.
Il lavoro come espressione dell’attività umana e della forza essenziale dell’uomo, in rapporto con la natura e con se stesso come manifestazione naturale, e quindi come attività e forza essenziale propria del genere umano, non esiste e non può esistere, finché non si abolisca il carattere di merce della sua produzione.
La società interamente adattata, dove nulla è più natura non mediata, è aggrappata a un paradosso: l’organizzazione delle cose umane separata dalla pratica dei rapporti in cui solo è possibile la trasformazione dell’esistente, riproduce e estende la violenza e la disumanità contro la quale, per salvare l’evidenza sensibile di ogni esistenza, era sorta. Questo carattere antinomico di quanto risiedeva nel concetto di cultura, che tendeva al vertice ad aprire un quadro nuovo in cui la cieca natura era vinta insieme al dominio caduco creato dagli uomini, dilegua invece nell’accettazione pura e semplice dell’esistente. Diviene mero adattamento, il suo modello è ancora quello in cui la natura inconciliata trionfa. Questa regressione è l’inganno con cui la cultura cela a se stessa la verità sul suo diritto: nella separazione dello spirito sublima la realtà della contrapposizione di lavoro manuale e lavoro intellettuale e la ipostatizza nella retorica dell’etica, la ratzio del dominio come pura violenza fisica.

Asger Jorn, Abolition du travail aliené

“L’economizzazione della coscienza avviene attraverso la sistematizzazione controllata dei metodi educativi. In questi ultimi, i fattori sconosciuti sono minuziosamente dosati in modo da occupare tutta l’attenzione del soggetto da educare. L’educatore che opera questo dosaggio conosce in anticipo questi fenomeni e se ne serve per ottenere reazioni normali, note e auspicate. Questo processo di presa di coscienza diventa un dovere sociale, stabilendo delle qualità di conoscenze e delle norme di condotta abbastanza complesse per corrispondere a delle capacità di assimilazione di ogni individuo: un carico di idee inerti che esclude ogni variabilità di coscienza al di fuori del sistema stabilito. Il solo modo di preservare la propria lucidità attraverso questa trasformazione dell’individuo in strumento, è quello di fare gli scemi evitando di essere individuati. Il che diventa sempre più difficile.”6

L’organizzazione dei rapporti diviene così il quadro dell’esercizio del potere che, nel presupposto di elevarli a umanità, finisce per elevare solo se stesso. In questa inversione l’adattamento del soggetto diviene un involucro, il cui carattere è l’illibertà della coscienza. Nella trasformazione continua in cui nulla cambia essa nasconde l’abuso della scissione a quanti ne pagano il prezzo. L’ideologia della socializzazione mediante integrazione e adattamento al lavoro, per quanto riguarda produzione e accesso al consumo, sono momenti dell’esclusione della potenza sociale riservata agli impotenti che la sostengono. L’allargamento dei mezzi, determinato dallo sviluppo delle possibilità di un’autoconservazione senza soggetto è la chiave di un rapporto di sottomissione.
L’importanza del tempo nella modernità è la verità della sua sottrazione: irrazionalmente ognuno deve evocarne la magia. Nel lavoro alienato surrogato autoritariamente a modelli predefiniti, quello che resta del concetto è lo struggimento nei confronti del tempo. La rabbia e l’astio per questa perdita definiscono l’isolamento, il vuoto senza speranza del presente di ognuno. La pressione esercitata dal tempo, la sua natura inesorabile, fornisce il modello fondamentale del dominio: è la forma prodotta dalla disgregazione dell’esperienza imposta dal lavoro.
Le nuove forme di socializzazione di questa dimensione costruita sono la quintessenza del carattere distruttivo dell’epoca: è dato solo trovare un varco tra le macerie, cosicché ognuno trascina il suo mondo nel suo crollo.

Goya, Saturno divora i suoi figli

Sospesa la dialettica, nell’idea stessa di progresso, la necessità dalla trasformazione propria alla base storica dell’epoca, si ritorce contro se stessa e, fuori dal cambiamento immanente a questa realtà dell’estraniazione, diviene apologia dello sviluppo reso possibile dall’avanzamento tecnico. Questa pseudo razionalità, la sua levigatezza plausibile, è quanto con la fatica dello spirito può solo invecchiare e deve tornare ad esorcizzare la realtà non dissimilmente e con meno responsabilità della vecchia superstizione.
Descrivendo affascinato l’opera di Klee Angelus Novus, Walter Beniamjn descrive una potente allegoria.
“Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”

(Segue)

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