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MIseria del lavoro p.2 di Daniele Martinuzzi

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Vi è un’interpretazione del XII canto dell’Odissea che svela nel mito il rapporto reciproco di lavoro e dominio. Il racconto narra del passaggio di fronte alle Sirene. La tentazione rappresentata dal loro canto è invincibile, la sua bellezza non è ridotta a mera arte, il passato vi torna come vivente e dissolve l’ordine del tempo tripartito, cosicché il futuro non manca mai la sua promessa. Nessuno può resistervi, l’identità individuale, di cui la nave d’Odisseo batte la rotta, si è appena formata con indicibile pena, è divenuta adulta nella assoluta lacerazione, e non può che rimpiangere l’infranto. Essa si strugge per una promessa di felicità, di cui il Sé trattiene l’immagine senza poterla adempiere. Sospeso tra autoconservazione e autoannientamento, plasma la memoria di un tempo prima del tempo, che non arriva mai a vivere, e ad ogni infanzia è imposto questo tributo di dolore.

Il bambino conosce un tempo dal corso diverso, in cui ogni strada è aperta di fronte a lui, egli ha ancora il potere di riconoscere il nuovo. Ma il mondo è alle porte e il suo carattere è il presente inesorabile. Chiuso nel cerchio delle ore egli deve divenire pratico, deve accettare d’invecchiare, così come più tardi, da lavoratore obbediente, inaugurerà col sacrificio ogni giorno della propria vita di sciagura.
Ma la tentazione del canto è irresistibile, Odisseo non conosce che una strada per conservarsi, insieme contraria alla propria morte e alla propria felicità. Egli tappa le orecchie dei compagni con la cera e gli ordina di remare con tutta la loro forza. Come fanno le schiere dei lavoratori costretti a tirare avanti l’ordine di un mondo in cui per durare non devono poter dare ascolto all’irrevocabile. Con i propri sensi mutilati, senza poter udire, con gli occhi accecati dal sudore, senza controllare la loro corsa, devono sublimare la propria frustrazione in ulteriore disperato sforzo.
Odisseo, il signore, colui per il quale gli altri lavorano, si è fatto legare stretto all’albero e ode impotente il canto. Ora conosce la verità sulla sua bellezza, e grida ai compagni di liberarlo, ma è troppo tardi, questi non odono nulla, sanno solo del pericolo che li minaccia e lo trascinano con loro stretto all’albero, per salvarlo e per salvarsi con lui. Così il servo riproduce con sé la violenza dell’oppressore, l’oppressore la dipendenza del servo che ha posto tra sé e la cosa.
Lavoro comandato e cultura, servitù e signoria, si sostengono reciprocamente nell’obbligo del dominio sociale sulla natura. Ma la separazione è impotente e la prassi formalizzata comporta, con l’affermazione della potenza delle forze produttive, il ritorno di stadi antropologicamente più primitivi. Così la natura, che è la sola autoconservazione, viene scatenata dal processo che si era votato a scacciarla. E già all’origine, la divisione del lavoro condanna il mondo, con l’incessante progresso all’incessante regressione.

Nella prima sezione del Capitale dedicata da Marx all’analisi della merce viene introdotto il concetto di valore d’uso, secondo il rapporto di quantità e di qualità, come determinazione del corpo stesso di una merce. E’ il corpo stesso di una merce, di una tonnellata di ferro come quella di un “arazzo filato” che costituisce valore; c’è un bene materiale attinente immediatamente al suo uso, qualunque sia la sua forma sociale. Ma nella forma della società in cui domina l’attuale sistema di produzione, il corpo stesso di una merce è depositario materiale di un altro valore, quello di scambio. Come semplice rapporto quantitativo, un quanto di una qualsiasi merce per un quanto di una qualsiasi altra, il valore di scambio si mostra come misura ancella del valore d’uso, un rapporto mediante il quale si scambiano valori d’uso di tipo diverso quanto a luoghi, tempi e modi della produzione. Ma così, surrettiziamente, il valore di scambio diviene propriamente valore solo come contraddizione in processo, “contraddizione nell’attributo” del corpo stesso della merce, del cui valore d’uso, necessariamente, non conserva più nulla.

Angelo Bronzino, La lussuria smascherata

“Prendiamo ancora due merci, per esempio grano e ferro. Qualunque sia il loro rapporto di scambio, lo può sempre raffigurare in una equazione, nella quale una data quantità di grano è uguale ad una data quantità di ferro, per esempio un quarter di grano uguale un quintale di ferro. Cosa significa questa equazione? Che in due diverse cose, in un quarter di grano come anche in un quintale di ferro, esiste un qualcosa di comune e della stessa grandezza. Quindi ambedue sono uguali ad una terza cosa, che in se stessa non è né l’uno né l’altro. Ciascuno di essi, come valore di scambio, deve perciò essere riducibile a questo terzo.”1

Come in ogni gioco di specchi, quando questi si guardano l’uno nell’altro, “Satana opera il suo trucco preferito” spalancando a suo modo la prospettiva sull’infinito.

L’essenziale, a partire dalla fenomenologia hegeliana, sta quindi nel fatto che il principio generatore della dialettica pone l’autogenerazione dell’uomo come un processo, e che, conseguentemente, concepisce l’oggettivazione come una contrapposizione, come alienazione e soppressione di questa alienazione. In questo senso esso intende “l’essenza del lavoro e concepisce l’uomo oggettivo, l’uomo vero perché reale, come il risultato del suo proprio lavoro”.3 Ma nel divenire per sé dell’uomo mediante l’intera sua opera collettiva, cioè come divenire della storia, che è il risultato di questo lavoro nell’ambito delle sue forze dispiegate realmente, egli si riferisce a queste forze come a oggetti: innanzitutto di nuovo nella estraniazione. La critica di Marx è pertinente al rapporto reciproco che in Hegel assumono fenomenologia e dialettica speculativa. Nell’essenza del lavoro, nel lavoro concepito positivamente, si cela il suo lato negativo: il divenire per-sé dell’uomo nell’ambito dell’alienazione o come uomo alienato.

Ma qual è la sostanza del valore di scambio, che abbiamo visto diviene solo a prescindere dal corpo stesso delle merci, di un valore che in quanto determinazione della cosa la nega, che prescindendo dalla cosa riduce il suo stesso corpo a spoglia. Cos’è ciò che resta loro, più propriamente quale la qualità del loro contenuto, “quella di essere prodotti del lavoro”

Ma il prodotto del lavoro, tralasciato il suo valore d’uso, tralasciate le forme concrete dei bisogni reali che l’hanno prodotto, subisce una metamorfosi. Diviene valore indipendentemente dalle proprie qualità sensibili, che rispetto a questo solo accidentalmente si presentano ormai nel corpo delle cose, non sono più quindi sostenibili neanche le forme materiali che producono tali cose, nessuna qualità d’ogni singolo lavoro che non possa essere ricondotta alla stessa misura suscettibile dello scambio, a “lavoro umano astratto”. Nuovamente non la cosa, ma la sua “immagine”, la rappresentazione di un rapporto sociale. Solo a posteriori in questo processo la cosa e il dispendio di forza umana in essa contenuta, ridiviene bene, valore socialmente utile, e solo in quanto in essa si è oggettivato “lavoro umano astratto”. La riconduzione di ogni attività umana al sorgere sempre uguale di uno stesso giorno, in cui tutto è sempre solo per-altro, movimento astratto del valore che si realizza incessantemente solo se ricondotto a sé nella pura identità quantitativa.
Nella “equazione di valore” compare tutto il “rimosso” della società, ciò che può essere dedotto solo negativamente e che pure separatamente determina il reale.

Partiamo da un punto.

” Il corpo della merce che funge da equivalente vale sempre da incarnazione di lavoro astrattamente umano ed è sempre il prodotto di un determinato lavoro utile, concreto. Il lavoro concreto diventa quindi l’espressione di lavoro astrattamente umano.”5 In questo è racchiusa tutta la misére della società produttrice di merci, e consiste nel fatto che per essa il “lavoro in forma immediatamente sociale” è sempre e soltanto lavoro astratto.
Il lavoro come espressione dell’attività umana e della forza essenziale dell’uomo, in rapporto con la natura e con se stesso come manifestazione naturale, e quindi come attività e forza essenziale propria del genere umano, non esiste e non può esistere, finché non si abolisca il carattere di merce della sua produzione.
La società interamente adattata, dove nulla è più natura non mediata, è aggrappata a un paradosso: l’organizzazione delle cose umane separata dalla pratica dei rapporti in cui solo è possibile la trasformazione dell’esistente, riproduce e estende la violenza e la disumanità contro la quale, per salvare l’evidenza sensibile di ogni esistenza, era sorta. Questo carattere antinomico di quanto risiedeva nel concetto di cultura, che tendeva al vertice ad aprire un quadro nuovo in cui la cieca natura era vinta insieme al dominio caduco creato dagli uomini, dilegua invece nell’accettazione pura e semplice dell’esistente. Diviene mero adattamento, il suo modello è ancora quello in cui la natura inconciliata trionfa. Questa regressione è l’inganno con cui la cultura cela a se stessa la verità sul suo diritto: nella separazione dello spirito sublima la realtà della contrapposizione di lavoro manuale e lavoro intellettuale e la ipostatizza nella retorica dell’etica, la ratzio del dominio come pura violenza fisica.

Asger Jorn, Abolition du travail aliené

“L’economizzazione della coscienza avviene attraverso la sistematizzazione controllata dei metodi educativi. In questi ultimi, i fattori sconosciuti sono minuziosamente dosati in modo da occupare tutta l’attenzione del soggetto da educare. L’educatore che opera questo dosaggio conosce in anticipo questi fenomeni e se ne serve per ottenere reazioni normali, note e auspicate. Questo processo di presa di coscienza diventa un dovere sociale, stabilendo delle qualità di conoscenze e delle norme di condotta abbastanza complesse per corrispondere a delle capacità di assimilazione di ogni individuo: un carico di idee inerti che esclude ogni variabilità di coscienza al di fuori del sistema stabilito. Il solo modo di preservare la propria lucidità attraverso questa trasformazione dell’individuo in strumento, è quello di fare gli scemi evitando di essere individuati. Il che diventa sempre più difficile.”6

L’organizzazione dei rapporti diviene così il quadro dell’esercizio del potere che, nel presupposto di elevarli a umanità, finisce per elevare solo se stesso. In questa inversione l’adattamento del soggetto diviene un involucro, il cui carattere è l’illibertà della coscienza. Nella trasformazione continua in cui nulla cambia essa nasconde l’abuso della scissione a quanti ne pagano il prezzo. L’ideologia della socializzazione mediante integrazione e adattamento al lavoro, per quanto riguarda produzione e accesso al consumo, sono momenti dell’esclusione della potenza sociale riservata agli impotenti che la sostengono. L’allargamento dei mezzi, determinato dallo sviluppo delle possibilità di un’autoconservazione senza soggetto è la chiave di un rapporto di sottomissione.
L’importanza del tempo nella modernità è la verità della sua sottrazione: irrazionalmente ognuno deve evocarne la magia. Nel lavoro alienato surrogato autoritariamente a modelli predefiniti, quello che resta del concetto è lo struggimento nei confronti del tempo. La rabbia e l’astio per questa perdita definiscono l’isolamento, il vuoto senza speranza del presente di ognuno. La pressione esercitata dal tempo, la sua natura inesorabile, fornisce il modello fondamentale del dominio: è la forma prodotta dalla disgregazione dell’esperienza imposta dal lavoro.
Le nuove forme di socializzazione di questa dimensione costruita sono la quintessenza del carattere distruttivo dell’epoca: è dato solo trovare un varco tra le macerie, cosicché ognuno trascina il suo mondo nel suo crollo.

Goya, Saturno divora i suoi figli

Sospesa la dialettica, nell’idea stessa di progresso, la necessità dalla trasformazione propria alla base storica dell’epoca, si ritorce contro se stessa e, fuori dal cambiamento immanente a questa realtà dell’estraniazione, diviene apologia dello sviluppo reso possibile dall’avanzamento tecnico. Questa pseudo razionalità, la sua levigatezza plausibile, è quanto con la fatica dello spirito può solo invecchiare e deve tornare ad esorcizzare la realtà non dissimilmente e con meno responsabilità della vecchia superstizione.
Descrivendo affascinato l’opera di Klee Angelus Novus, Walter Beniamjn descrive una potente allegoria.
“Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.”

(Segue)

Dove va questo mondo?…

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L’ho intravista ieri sera, guardando gli occhi ambrati di mio figlio. Ho intravisto la ‘vera’ verità. Il gioco al massacro di questo sistema corrotto che spezza le ali e annienta i sogni. Quanto parlarsi addosso per non dirsi nulla. Quale continuo cicaleccio. In quegli occhi c’era invece scritto tutto: dove va questo mondo? E ora… che facciamo? La gioia di una ‘maturità’ appena conquistata lascia il posto a sgomento, smarrimento, frustrazione. Io non ci salgo in questa giostra. Questo. Dicevano gli occhi di mio figlio. Mi avete allevato su scala, come un pollo in batteria, ora guardo la vita e non so che farne. Va bene figlio mio…ricominciamo daccapo. Cominciamo dai tuoi sogni, dai tuoi talenti siano quel che siano. Spazza via dal tavolo queste sporche carte da gioco. Prendi tra le mani l’essenza, bandisci le stupide regole che vogliono assegnarti a forza un ruolo. Pensa col cuore. Inventati un mondo. Non farti prendere dalla vertigine, danzaci sull’orlo del burrone. Procedi con coraggio in instabilissimo equilibrio. Lo so non basterà una pialla a levigare le assi che ci siamo costruiti attorno, ma scardinare questo sistema si può. Si deve. Questo mondo non prevede più né la bellezza né la poesia, rifugge i sentimenti e la compassione. Si nutre di poco alla fin fine:indicatori materiali,complesse formule matematiche, indici istat. Sprona a una competizione selvaggia che genera piccoli mostri sin dall’infanzia. Tu scalcia forte, non farti ingabbiare. Cerca di metterci amore nelle cose che fai. Sogna un mondo migliore, sogna quel risveglio collettivo che tutti attendiamo. Perché i sogni di chi ha un giovane ‘cuore di tigre’ come il tuo fanno tremare il mondo. Scappa da rabbercianti raggiri, non piegarti mai al compromesso. Abbi un ‘movente’ per tutto ciò che fai e credi fino in fondo. Decidi se fischiare o applaudire senza prima guardarti intorno in cerca di consensi. Mantieni uno stato di ‘gioia pulita’ dentro te. Non confondere mai il coraggio con la finta spavalderia, il desiderio di giustizia con la brama di potere.  Saranno i tuoi occhi ambrati pieni di speranza e paura e più quegli altri mille e poi mille di tutti i giovani uomini e donne pronti alla vita come te a restituirci, forse, una dimensione più umana, una dignità persa e ormai lontana, un ‘movente’ per vivere ancora. Con tutto l’amore che posso…..

 (Cinzia Anderini)

Errori strategici e limiti attuali del Movimento 5Stelle

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Alla fine è rimasto con milioni di voti ed il cerino in mano. Ad un certo punto avrebbe potuto infilarlo in una bottiglia di benzina semipiena, o almeno provare con un tiro ben calibrato a centrane il collo, pur stretto che era. Invece ha seguitato ad agitarlo e gli si è spento in mano. Il momento è quello del Bersani con le braghe più o meno calate, ma intenzionato a fare il presidente del consiglio. Chiunque mastichi un po’ di politica nella democrazia rappresentativa, quella che pur contestata i 5Stelle hanno accettato di voler fare a livello nazionale, avrebbe potuto capire che si doveva accettare l’entrata nel governo Bersani per fare – anche in un ruolo piuttosto comodo di opposizione interna che ha “salvato il paese”– quello che ora si cerca di fare nel ghetto dell’opposizione irrilevante, la cui massa di emendamenti e proposte di legge annoiano un regime ricompattato nel peggio di se stesso, che per ora può cacciarne l’agitazione come si caccia una mosca. E fa ridere tristemente ripensare alle battute da scuola media – “sembra di essere a Ballarò” – con cui i due rappresentanti facevano vedere di non contare nulla né capire nulla di quanto stava accadendo: allo spettacolino “concentrato” di Ballarò era stato sostituito quello “diffuso” della diretta streaming, ma la posizione di minorità intellettuale e politica assunta dal 5Stelle risultava lo stesso chiaramente, “non ci fidiamo” diceva a Bersani un tale che poteva, con i numeri alle spalle, in quel momento infilarglielo discretamente, ossia costringere proprio Bersani a fidarsi.
In più, il 5Stelle non è affatto un movimento rivoluzionario, vuole sì cacciare la mala politica fondata sul partito ma ha una idea di legalità, di Stato, di diritto e dovere di cittadinanza, del tutto omologa a quella del soggetto borghese su cui si fonda la democrazia rappresentativa dei partiti, che l’M5s vorrebbe trasformata in democrazia diretta liquida sul web. Inoltre la sua campagna elettorale, al di là delle urla, non era stata certo lotta per imporre una serie di valori condivisi, profondi, ben identificati e comuni, maturati nel movimento. Era stata invece campagna elettorale anche questa come le altre di “salvezza nazionale”, di risposte semplici da dare subito a gente che chiedeva soluzioni di problemi complessi. Ma la totale insipienza strategica è seguitata con il fallimento della ipotesi, questa volta miracolosamente ben pensata, di Rodotà presidente. Prima la farsa delle scelta web, poi il far indossare a Rodotà dopo il giochino dei ritiri già ovvi la casacca a 5Stelle, casacca che ha reso impossibile la sua elezione: nella democrazia borghese in un parlamento così’ combinato devi sapere che il tuo cavallo vince se riesci a presentarlo come il cavallo dell’altro. Una questione di bardatura. Ora cento e passa deputati a 5Stelle contano meno e fanno meno di quattro radicali negli anni settanta.
Grillo una cosa sa fare, una cosa ha fatto per anni: spettacolo, denuncia tribunizia, slogan, transfert ipnotico del negativo e del delirio accreditato dal regime, satira di protesta come si deve (non quella di finta sinistra, perbene), rinfaccio mediatico alla palude asservita dei mediatici e dei mediatizzati.
Non era la rivoluzione né il suo primo vagito, ma era qualcosa nell’assordante protesta delle cicale, come cantava anni addietro il suo amico De André. Grillo è inchiodato al mestiere: dove le cose si complicano, dove si affronta la crisi di un sistema, di una intera civilizzazione, dove anche i problemi più spiccioli rimandano alla necessità di una visione teorica e programmatica all’altezza, di respiro universale, la lima gli scarroccia dalle mani, il tornio s’incanta. Nemmeno lo si può rimproverare più di tanto, da un punto di vista personale. Della politica e della società dello spettacolo di cui ha rappresentato in questo scorcio di anni una contestazione spettacolare ma non completamente manierata e di facciata, condivide tantissimi assiomi. Quello della semplificazione per esempio, come si diceva. La semplificazione per la gente disperata è quasi come il pane, ma difficilmente sfama. E’ anche un arma a doppio taglio: dove è il potere a stendere matasse per nascondere le regole di dominio nella vita sociale agli spettatori, è un buon coltello che sgombra, fa luce, ma dove la matassa è vera, risulta dalla complessità delle condizioni, la lama ci affonda e ci rimane impigliata, storce il polso e taglia le dita di chi la regge.
Se ci parli, con Grillo, e cominci ad affrontare un problema che per natura e condizioni non è riducibile immediatamente all’elenco della spesa programmatica – ossia praticamente qualsiasi problema vero – risponde con una battura, svicola in uno slogan: lo avevamo già visto, lo faceva e lo fa, dal versante cumenda, dal versante “difendi la libertà dei tuoi interessi privati”, Berlusconi. Lo faceva e lo fa, dal versante imbonimento di valori inapplicabili ed inapplicati, la mascherata culturale della sinistra social-capitalista. Lo fa ora lui dal versante genovese incazzato-arruffato, un po’ camallo un po’ padre di famiglia onesto coi soldi, documentato alla buona su internet. Perché basta leggiucchiare qua nel web degli uomini di buona volontà e arginare i disonesti e i profittatori per mettere in scacco l’organizzazione sociale più complessa ed articolata in cui gli esseri umani hanno organizzato la loro servitù, il feticismo delle cose nella società fondata sul denaro, il dominio di una sintesi sociale secolare. Invece dentro e dietro la favola il potere funziona veramente e la sintesi sociale capitalistica, plurisecolare, è la trama che non si scioglie a battute e misure di semplice semplificazione-rassicurazione.
Intorno Grillo non ha nessuno, mentre avanza con il messianismo del non-statuto ed il marchio dell’azienda che funziona come qualsiasi azienda nel mondo ridotto a logica aziendale, su i cui risultati disastrosi il comiziante-postatore fonda lo snocciolarsi degli slogan contestatari e salvifici. Con la base, tolte le arringhe e i il giubilo dei comizi, non ha alcun rapporto, né lui, né l’accolita segretata dello staff; e poi gli eletti del successo elettorale: un centinaio di brava gente in gran parte impreparata ed attonita delle responsabilità e del successo ottenuto non già dopo anni di crescita collettiva, di valori comuni elaborati in battaglie e resistenze, cementati da una prospettiva chiarita, seriamente comune, articolata e sufficientemente fondata su una visione compartecipata dello stato delle cose: no, uniti dal successo spettacolare di prediche ben fatte, da un mestiere consumato, e dal patente fallimento altrui.
E poi, la Casaleggio-staff. Quest’ultimo, il guru del web sognatore come dicono sia, è un tipico prodotto dell’era dell’ingegneria tecnica internettara, della boiata della cyber-society. Lascio un beneficio d’inventario futuro, ma dal deliro web – politicamene e socialmente parlando – per ora non è venuto nulla di buono, se la prospettiva è l’emancipazione radicale della vita quotidiana delle donne e degli uomini.
Movimenti e battaglie politiche di gente semi analfabeta, che si riuniva in sottoscala di slums industriali o in stalle coperte di sterco, non solo hanno dato vita qua e là a momenti di rivoluzionaria riorganizzazione della vita sociale così avanzati che oggi parrebbero impensabili e lontane utopie, ma in un paio di secoli hanno strappato al cielo che assaltavano con le unghie e con i denti i pezzetti di democrazia sociale ancora presenti nell’attuale mondo cosiddetto civile e iperconnesso, oltre ad aver contribuito a consolidare la democrazia borghese su i cui valori ed istituzioni, per incompleti e condizionati dal modello sociale capitalistico che siano, ancora campa lo straccio di libertà di opinione ed organizzazione possibile anche agli internettari di oggi.
Era gente che oltre a riunirsi e organizzarsi non solo per ascoltare il comizio del capo-azienda e tornare a commentare ogni volo di mosca sui loro blog, ha fatto tutte le cose prima ricordate scambiandosi sapere, guarda un po’ che non avevano nemmeno il cellulare o il telefono stesso, parlandosi dal vivo e distribuendosi fogli di carta di varia natura, leggendo quel misterioso oggetto chiamato libro, oppure volantini, giornali, pizzini: tutte cose con le quali alla fine potevi almeno pulirti il sedere. Provate a farlo con un tablet, non serve nemmeno a questo. Ma come? La primavera araba è stata scatenata da internet: ecco una favola web da gettare letteralmente nel cesso, una primavera che ha fatto presto a tramutarsi in rigido inverno, non a caso, magari per potenza dell’accelerazione web che capita alla politica-adsl.
E’ un fatto poco difficile da smentire, per ora, che la web-society e i suoi mezzi non abbiano prodotto alcun movimento, organizzazione o non organizzazione, in grado di scalfire minimante l’attuale forma di dominio sociale, ma anzi lo abbiano rafforzato, perché alla fine non si tratta che di prodotti, di merci, capitalisticamente prodotte e utilizzate, che rafforzano l’idea di individuo e società – la versione cyber della democrazia borghese ridotta a celle di blogger – perfettamente compatibile con l’individuo asservito alla società di mercato ed ai suoi corollari: capitale, lavoro merce, stato, denaro, cosucce senza le quali la “rete” andrebbe beatamente a farsi fottere.
Pensare alla comunità come serie interconnessa di “comunità virtuali” capaci persino di esprimere un elevato contenuto di democrazia reale e non formale, ripensare la comunità nel senso della web espressione di democrazia partecipata è nel quadro della società capitalistica un delirio infantile per chi non abbia smarrito un senso minimo di ragionevolezza, e che almeno immagini ancora cosa sia una comunità in grado di formarsi e darsi libere concrete capacità di associazione: significa progettare una comunità di umani potenzialmente sani con un circo di mutilati, freaks e zombi a disposizione.
L’individualità borghese, che già di per se stessa era formazione storica peculiare che dissolveva nelle sue forme di identificazione il concetto stesso di comunità, ne conservava alcuni tratti, ma la monade-massa web iperconnessa , per quanto moltiplichi le possibilità di relazione e comunicazione all’infinito tramite gli strumenti merce che la stessa forma di mercato gli fornisce, ingollandola come una oca da paté di ritrovati, non entra in contatto con null’altro che col suo narcisismo ed isolamento, alla disperata ricerca di sintesi collettiva. La virtualità seguita ad agitare il feticcio della facilitazione della trasmissibilità mentre procede al taglio di ogni contatto realmente mutuale, rischioso, non solo mediato, fondato su una esperienza anche sensoriale dell’orizzonte cognitivo: come possiamo immaginare che un individuo che non può fare a meno dell’automobile privata, del tablet, di due o tre telefoni e di internet possa vivere in una società priva di lavoro mercificato, di legami stabili necessari a fondare una comunità autogestita, di Stato e mercato come principi fornitori e regolatori di accessi al prodotto disponibile e repressione organizzativa?
La democrazia diretta via web non è che una imitazione, un adattamento, del soggetto borghese alla società delle monadi-massa web connesse, ai consumatori dell’aria fritta e di quella ancora da friggere.
Il cesarismo aziendale con una base di monadi-massa libere di straparlare ovunque e decidere di tutto e nulla nella totale impotenza a cambiare le forme fondamentali della società di mercato che ne modella condizioni oggettive e esperienze cognitive, è l’irrilevante destino anche del movimento 5S se non cambia radicalmente strada.

L’imbecille intervento di Grillo sul picconatore Kabobo.

 

ImageSe l’intervento di Grillo, tempestivo ed imbecille, sulla follia criminale del ghanese Kabobo ha suscitato sul blog del M5S numerose polemiche, e le ovvie difese d’ufficio o di fede da parte dei giullari del re e dei preti del tempio, raramente si è centrata la vera questione: non è il razzismo vero o presunto, non è lo scimmiottamento a fini di realpolitik a 5stelle dei deliri leghisti il centro interessante del post di Grillo.

 

Il centro è la totale, disarmante, imbecillità dimostrata nell’affrontare un problema epocale come quello della immigrazione sulla scorta di un episodio di follia criminale.

 

E’ inutile girarci in tondo per salvare il senso dell’intervento dell’opinion maker maximo del 5Stelle, perché almeno questo Grillo – rispetto ai vari blaterii politichesi – è chiaro, le sue opinioni sono limpide, anche se in questo caso limpidamente imbecilli.

 

Queste opinioni possono essere facilmente sintetizzate:

 

  1. Le attuali leggi e la loro applicazione in materia di immigrazione non sono in grado di “fermare” l’accesso al paese di “stranieri” extra-comunitari o comunitari peone senza arte né parte: e questi, pensate un poco, anche loro, come tanti italiani, poveri e ricchi, possono “delinquere” ed “impazzire”. Corollario di questo punto: se a delinquere per scienza o per impazzimento è un italiano, la questione è diversa? Probabilmente sì, nascere in Italia ( ma senza essersi avvalsi di Ius Soli eh, diciamo “naturalmente” italioti) ed impazzire criminalmente sarebbe tutto un altro paio di maniche. Altrimenti Kabobo non avrebbe dovuto essere in qualche modo collegabile tanto strettamente, per il suo specifico atto criminale, ad una questione di immigrazione o social-razziale.

  2. Le attuali leggi (per inciso: già infami, perché creano ad hoc lo statuo criminogeno di “clandestino”) e la loro applicazione non riescono ad “espellere” rapidamente, o rapidamente incarcerare, i clandestini, ossia un numero di non aventi diritto alla cittadinanza e dunque potenzialmente più delinquenti dei delinquenti e pazzi italiani DOGC con “la chitarra in mano”.

  3. Le attuali leggi non permettono alle forze dell’ordine – perché un internamento senza processo ed una eliminazione in campo di concentramento non è ancora all’ordine del giorno – di arginare la presenza e la delinquenza dei clandestini prima che impazziscano e delinquano.

  4. L’attuale codice penale – questa la più rilevante imbecillità a mio vedere – che prevede in atti criminali il concetto di “infermità mentale” rischia di metter in libertà un pazzo assassino. Anche qui vale il corollario del primo punto: e se per effetto dell’infermità mentale ad uscire è un folle delinquente ma con nazionalità italiana? Qui il “beneficio” deve esser conservato?

Dunque, seguendo il ragionamento dell’imbecille e i suoi corollari, dovremmo indicare la direzione politica dell’analisi: estendere e rafforzare il concetto di “nazione” e “frontiera“ in modo da renderla il più possibile inaggirabile, non permeabile, soprattutto al branco di peone altermondisti. Estendere e rafforzare i poteri delle forze dell’ordine contro questa massa di potenziali delinquenti e pazzi, ossia arrestare, incarcerare, espellere a man bassa. Rafforzare istituzioni come il manicomio criminale od altri sistemi per cancellare l’esistenza sociale di chi impazzisce criminologicamente, o forse meglio di chi impazzisce tout court, visto che di un pazzo non ti puoi fidare, magari sta buono per anni e poi prende un piccone.

 

Tutto questo sulla base, notate bene, del delirio omicida di uno straniero.

 

Seguendo l’intelligenza di questo discorso grillesco o chi per lui messo in console da Casaleggio nello “staff nazionale”, per proteggerci adeguatamente, perché dunque non estendere ad libitum in concetto di frontiera?

Perché il delinquente o pazzo con carta di identità nazionale dovrebbe venire a delinquere od impazzire nei luoghi dove oggi giorno poso le mie terga?  Perché un criminale e folle, ad esempio ligure, senza tema di polizie, permessi e frontiere, dovrebbe avere la possibilità di andare a prendere a martellate qualcuno in Piemonte? Perché è italiano? Ed al martellato piemontese cosa gliene frega? A rigore, poteva restare in Liguria, e prendere a martellate qualcuno dei “paesi suoi”. E non è a questo punto terribile che un pazzo di Sezze romano, potrebbe andare a bruciare qualcuno nella capitale? Se estendiamo frontiere, e pulizia-polizia geografica (che in Italia riuscirebbe meglio vista la quantità di incroci di quella etnica) all’interno di queste, perlomeno criminali e folli di questo o quel paesucolo, al massimo, potranno delinquere ed impazzire nel loro paesucolo: od essere riportati in camicia di forza appena pescati ad impazzire altrove che a casa propria. A quando la frontiera nazional-cittadina di Genova Nervi?

Ma a pensarci bene, nemmeno questo basterebbe. Perché come si risolve sul piano della “sicurezza” dall’impazzimento autoctono il caso del poliziotto di Palermo dalla vita integerrima che si è alzato dal letto per andare a sparare al figlio di otto anni che dormiva e poi si è suicidato? Minchia l’ha fato dentro casa sua: qui non c’è frontiera o polizia-pulizia nazionale regionale o di quartierino che tenga!

 

E se il polizotto fosse sopravvissuto al suicidio, e per l’omicidio del figlio avesse avuto il beneficio di una “temporanea incapacità di intendere e volere”, e dopo qualche tempo fosse stato messo in libertà ed avesse fatto un altro figlio?

 

Cosa avrebbe fatto la società della pulizia frontaliera evocata dalla richiesta di efficienza protettiva-espulsiva dell’ex divo catodico? Portarlo in acque internazionali e lasciarlo lì? Regalarlo all’India per metterlo assieme ai due Marò-contractor che per denaro e per sbaglio hanno ammazzato due pescatori, e che quindi, da un punto di vista etico, sono quasi peggio di Kabobo, che perlomeno era impazzito, mentre loro erano “nell’esercizio delle loro funzioni”.

Purtroppo in tema di immigrazioni non si tratta di assumere il punto di vista borghesotto e benpensante da salotto di sinistra ( a cui di sinistra è rimasto solo il bel pensare in salotto) di una positività della cosiddetta società multietnica. E’ chiaro che questa – come per tutto il resto che ci circonda però – è determinata dal dominio folle dell’economia di mercato, e non posta in essere dal libero mutuo movimento degli esseri umani.

 

Ma proprio per questo motivo, non si può liquidare con ragionamenti raffazzonati ed imbecilli il problema.

 

La verità è che Grillo e la gran parte del M5s hanno assunto ormai la squallida e reazionaria veste che ogni popolar-nazionismo (non dico “nazionalismo” solo per distinguere questa imbecillità da quella di un La Russa) finisce per indossare prima o poi.

 

 

 

 

 

Postulati

idioziaNessuno voleva una forza politica di governo o di opposizione. D’altra parte nessuno vuole la verità ma il verosimile. Dal Movimento si attendevano tutt’ al più una badante al Partito Defunto di Bersani. Dovevamo proteggerlo dalle pressioni MassoDemenziali del Presidente, dovevamo proteggerlo dal Ren-Clone giovane di Berlusconi, dovevamo proteggerlo dal Nipote dello Zio. Effettivamente ci era sfuggito che il PD, che si era candidato a governare il paese per conto della BCE, aveva qualche problema di entropia interna. E’ però anche vero che se un Movimento si immola alla verità ed onestà se ne assume tutte le responsabilità, inclusa quella di non disporre di un sfera di cristallo. L’accusa più ricorrente è la seguente: Se si dava la fiducia a Bersani l’inciucio si sarebbe impedito. Come dire: Se non nascevi non potevano ucciderti; che si può ulteriormente declinare in: Se ti metti la minigonna è normale che ti violentano. Ma di quest’ultima declinazione se ne occuperà egregiamente l’attuale vice ministro alle pari opportunità per gli stupratori. E allora non ci rimane che rimettere un po’ d’ordine ai postulati universali.

La colpa è del vigile che non guida la vettura di chi ha commesso l’infrazione.

Se sbatti la testa la colpa è dello sportello che è rimasto aperto.

Lascia la porta aperta ed il portafoglio sul tavolo così possiamo evitare le spese processuali per i rapinatori.

Se ti candidi a Premier e vinci le primarie non è detto che poi ti senti obbligato a fare il Primo Ministro.

Un Deputato o un Senatore, neoeletti, possono prendersi tutto il tempo che vogliono per capire che cazzo ci sono andati a fare nei luoghi deputati alla guida del paese.

Premesse queste poche variazioni neolinguistiche, in un mondo da riscrivere, appare evidente che se esiste la Mafia, la Collusione, la Corruzione, la Meschinità, l’Ignavia e l’Ipocrisia, la colpa è di chi è Giusto e di chi è Vero poiché, grazie a questa devianza, si nota e si giudica la differenza. Quindi se l’elettorato di Bersani, e Bersani stesso, è una Merda la colpa non è loro ma nostra che non gli abbiamo dato la fiducia. La remotissima idea che il PD, che ha ottenuto il premio di maggioranza a causa di una legge elettorale di matrice Suina, avesse aperto in qualche modo ad un Movimento, che senza inciuci elettorali è arrivato a pari merito ala Camera, non ha sfiorato il cervelletto di nessuno dei Dieci Saggi.

Concludendo e ritornando alla sfera di cristallo, quest’ultima servirebbe per predire il futuro e non il passato.

(massimo maggi)

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Tutti gli idioti del presidente

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Follie? Ora tutti quelli che strepitavano nella vecchia fattoria mediatica in attesa che i maiolotti facessero correo ai macellai, che piagnucolavano cosucce del tipo “iL 5S non può solo dire di no”, “si deve assumere le responsabilità”, “Bersani ha fatto un passo avanti, Grillo non ne faccia due indietro”, sono serviti: quelli del Pd sembrano una pletora di grulli di campagna  portati in gita al casinò, non sanno nemmeno contare le fishes, ma sperano di riportarsi indietro il gruzzolo con qualche trucchetto. Per questo all’inizio  invece di soldi sonanti, si sono portati appresso le cocuzze: Marini, Prodi. Qualcuno fra i più scaltri in fatto di grulleria sperava di poter puntare a  cavallo del rosso e del nero , bacchettato subito dal croupier, perché al di fuori dei grulli tutti sanno che alla roulette sui colori si scommette alla pari e o rosso o nero.

Certo puoi puntare due volte, sia sul rosso, sia sul nero, contemporaneamente, la stessa cifra: fai finta di aver giocato, da un lato rivinci la posta, dall’altro la perdi, e vai a bere un drink con Napolitano, sua eminenza “piena di grazia” per i farabutti e gli idioti di regime.  Rodotà non lo votano dopo aver piatito accordi per un “governicchio di cambiamento” con Grillo? Beh era ovvio: era tutto finto, era il ricatto ad entrare con le buone nel recinto del macello gestito da loro, ed oggi si vede con quanta buona ragione hanno ricevuto uno scaracchio in faccia. Quando invece la proposta di accordo “di cambiamento” è seria (vale a dire: parte dai fatti importanti, concreti, senza fiducie in bianco) e non gestita solo da loro, non ci stanno.  Più che occupare le sedi del Pd i suoi giovin signori dovrebbero cominciare a disoccupare l’Italia da se stessi e dal Pd. D’altra parte non è il partito, l’area culturale, dove per anni si è ritenuto un fine stratega (forse per via dei baffetti e la posa da signorotto medievale che tanto nessuno lo tocca), un tal D’Alema, la cui arte della guerra potrebbe essere riassunta nel motto “incula così poi ti inculano”?

Manca loro solo di eleggere proprio lui: il più macellaio tra i grulli, la madre di tutti i Pdmenoelle.

Fate vobis. Meliora latent.

E intanto i “soliti noti” ci riprovano…

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Nuova mobilitazione per i comitati e le associazioni ambientaliste dell’Orvietano. Questa volta, ad essere nel mirino di un vasto cartello di soggetti, è un mega progetto di eolico sul Monte Peglia: progetto assolutamente fuori scala, secondo gli ambientalisti, che sta allarmando tutti. Lungo il crinale più alto del Monte Peglia, infatti, la società Innova Wind srl ha richiesto due progetti di parco eolico per un totale di ben 18 (diciotto) torri eoliche per un sviluppo in altezza di circa 150 metri ciascuna, da realizzarsi nei comuni di San Venanzo e Parrano 

“A contorno delle torri – evidenziano i comitati in una nota stampa – il progetto prevede elettrodotti di collegamento, strade di accesso per realizzare le installazioni, una cabina elettrica di grandi dimensioni (su 13.000 m2 impegnati), espropri di aree private e quant’altro necessario sconvolgendo paesaggio e ambiente. Logica base del progetto sembra essere soprattutto quella di collocare le torri nei punti più ventosi, a prescindere quindi dagli insediamenti abitativi esistenti, ignorando l’incessante rumore dei generatori in funzione, le rotte migratorie degli uccelli, e tante altre cose che fanno bello il comprensorio del Peglia”.

E le associazioni si chiedono “come mai simili progetti, che per violenza sulle persone e sull’ambiente non hanno eguali, hanno accesso agli iter amministrativi. Che fine hanno fatto – aggiungono – i piani paesistici di cui la politica si riempie la bocca nei convegni per poi ignorarli completamente di fronte alle richieste di una società che propone progetti di decine e decine di milioni di euro con un capitale sociale di diecimila euro? Dov’è la politica regionale di salvaguardia del patrimonio regionale di una regione che, nonostante frane, cave, esondazioni, energie alternative speculative e urbanizzazioni selvagge, è ancora una delle più belle regioni d’Italia?”.

E ad essere chiamato in causa direttamente è anche l’assessore all’Ambiente della Regione Umbria Silvano Rometti, “da cui anche questa volta – si sottolinea nella nota stampa – comitati e associazioni si devono difendere per salvare il territorio e il paesaggio da piccoli e grandi imprenditori a cui viene lasciato campo libero senza uno straccio di programmazione. Dalle discariche al geotermico, al fotovoltaico, alle biomasse, alla gestione dei rifiuti ed ora anche all’eolico stiamo assistendo a tentativi palesi di allentare le regole e favorire senza ritegno le imprese. E’ un atteggiamento che non ci piace”.

Riflettendo più in generale, comitati e associazioni evidenziano inoltre che “non ci si aspetterebbe il fotovoltaico selvaggio su ottimi terreni agricoli, in aree turistiche, non ci si aspetterebbero impianti a biomasse di stazza industriale quando tutti gli esperti lo consigliano solo per il riuso di scarti aziendali, non ci si aspetterebbe di vedere arrivare tra capo e collo progetti geotermici di dichiarato rischio sismico. Come non ci si aspetterebbero mega progetti eolici, anziché il micro – eolico che può essere finanziato su larga scala senza vistosi impatti. Iniziative a dir poco strampalate che però, se non bloccate per tempo e venissero invece attuate, farebbero correre gravissimi rischi al benessere dei residenti ed alle consolidate attività produttive locali. Iniziative poi che non lasciano un soldo sul territorio che sfruttano e con gli utili aziendali che quasi sempre prendono il volo verso l’estero”.

A mobilitarsi sono:

Comitato popolare tutela Monte Peglia, S.Venanzo / Parrano
Comitato Nazionale contro Fotovoltaico & Eolico Aree Verdi e Naturali, Acquapendente
Associazione WWF – sezione di Orvieto
Comitato Amici di Rocca Ripesena, Orvieto
Associazione sviluppo sostenibile e salvaguardia Alfina, Acquapendente
Comitato per la Difesa della Salute e del Territorio di Castel Giorgio
Associazione di promozione sociale Artemide, Orvieto
Comitato Interregionale Salvaguardia Alfina (CISA), Orvieto
Associazione “ReSeT” – Rete di Salvaguardia del Territorio (Tuscania)
Associazione Il Ginepro, Allerona
Associazione Accademia Kronos, Umbria
Associazione La Renara per l’ecosviluppo del territorio, Castel Giorgio
Associazione Italia Nostra- sezione di Orvieto
Comitato tutela e valorizzazione Valli Chiani e Migliari, Ficulle
Associazione Amici della Terra- Club di Orvieto
Comitato per la qualità della vita del basso Chiani, Orvieto
Cooperativa La Terra Comune- S. Venanzo

(Jonathan Gaddi Giomini)

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Divieto dell’acqua…

Ma siamo impazziti?!? La nostra bella Orvieto dai balconi fioriti e piccoli orti, ma importanti che permettono di coltivare ortaggi senza pesticidi o altro…buonissimi! Come coltivatrice, ho un mio piccolo orto e questo divieto  non lo accetto, considerando tutti i programmi che vedo su Internet, riviste specializzate, per coinvolgere la gente a coltivare pomodori sulle proprie terrazze. Tutto ciò finirebbe, tutto ciò morirebbe.

 

Cara Giunta, la invito a pensare a questo, anche se per voi potrebbe essere una piccola realtà..e poi come la mettiamo con la SII? Mi devo arrabbiare pure con lei? Perché a mettere nelle nostre tasche è sempre capace! E’ ora di dire BASTA a questo connubio da Comune e SII! Cittadini di Orvieto, ribellatevi!!!

 

Aggiungo un’altra, ma pur grande cosa: stiamo tutti attenti agli sprechi…e alle piscine non comunali. Firmato: una piccola coltivatrice di pomodori e rose…i pomodori si gettano agli incapaci, le rose ai buoni!

 

 

Annamaria Cencioni.

Pomodori...per chi li merita!!

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Benvenuti a tutti!!!

Ciao ragazzi, ecco che con questo post, si apre ufficialmente l’avventura del Movimento Cinque Stelle in una realtà importante come Orvieto che, dopo anni e anni di malgoverno da parte delle varie giunte di “centrodestra” e “centrosinistra” (se così le possiamo ancora definire), ha bisogno di una sostanziale scossa che chiaramente dovrebbe partire “dal basso”, ossìa da tutti quei cittadini che, a prescindere dalle loro diverse idee politiche, si riuniscono per discutere in maniera propositiva delle questioni irrisolte che da tempo affliggono la città e il suo comprensorio. Detto questo, nella speranza che il seguito possa essere sempre maggiore, verrà postato qui di seguito il bilancio comunale dal quale partire come spunto di eventuali proposte e riflessioni, ma in ossequio comunque dei punti principali del cosiddetto “non statuto”: mobilità, energia, salute, lavoro ed economia..in una parola sola: BENESSERE! A prestissimo allora!!

 

Jonathan.

 

Programma Movimento 5 Stelle